Questo articolo è un estratto dell’intervista live fatta da Federico Vigorelli Porro a Luca Grieco. Il video qui sopra è la registrazione del Live Streaming.
Creare Cultura Digitale o Digital Culture se lo diciamo “alla milanese” diciamo così usando degli inglesismi è molto importante, nelle diverse Live NeveStopLearning stiamo cercando di esplorare le tematiche di innovazione in ambito HR e la Cultura Digitale si posiziona come uno dei temi centrali, una di quelle cose di cui un po’ tutti parlano, tutti vorrebbero svilupparla, tutti dicono che in Italia non ce l’abbiamo, che ci manca e che il nostro paese soffre un lag di competitività per l’assenza di questa cultura digitale nel Paese e nelle aziende ma di fatto come
svilupparla e come le aziende stanno affrontando questo tema e soprattutto qual è il ruolo che HR ha nel suo sviluppo è un tema sicuramente ancora molto aperto.
Luca Grieco, intervistato in questa “puntata” di NeverStopLearning Live, è stato HR per 15 anni e si è occupato di Cultura Digitale in diversi contesti e settori, cominciando da una grande azienda di telecomunicazione quindi di tecnologia e toccando poi altri ambiti, il metalmeccanico fino ad arrivare anche al farmaceutico nel quale oggi occupa posizione da HR Director.
Luca, in che modo il tuo percorso si è intrecciato con la Digital Culture?
Essere cresciuto in una grande azienda di tecnologia come Alcatel Lucent, che oggi è Nokia, mi ha permesso un primo avvicinamento. Si parlava di certi protocolli già a inizio degli anni ’10, nel 2012 dei primi protocolli legati alle competenze digitali. La verità è che pochi capivano che cosa fossero, anche perché parlandone in un contesto ingegneristico il digitale, perlomeno nel decennio scorso, sembrava qualcosa di molto legato all’aspetto tecnologico e quindi molto IT. Tutto il resto che era legato a quella tecnologia più consumer da lavoro, i classici corsi di Microsoft, di Office, di Excel, sono sempre stati vissuti come pesanti: competenze acquisite magari in Business School o sul lavoro, oppure manualoni polverosi e francamente di certo non momenti di apprendimento di grandissima gioia, pur con tutta le utilità che hanno questi software. Eppure questi sono primi esempi di competenza digitale che costituiscono le basi di quello che adesso è invece la vera e propria competenza digitale.
In merito a questo ho avuto un’esperienza breve ma illuminante: sono stato per sei mesi l’HR Director di gruppo di uno dei principali gruppi italiani legati all’e-commerce e al digital media. Lì mi sono reso conto di tanti aspetti della cultura digitale e di cosa siano le competenze digitali. Nel frattempo, rispetto alle mie, prime esperienze, era scoppiata la rivoluzione degli smartphone, l’Internet of Things di cui si parla da tanto tempo è ora diventata una realtà di tutti i giorni, il mio smartphone ne è la dimostrazione tangibile e giornaliera.
Credo sia fondamentale che quando si parla di competenze digitali non sia sufficiente parlare di comportamenti individuali: dire la rivoluzione digitale parte dal modello di business le aziende, non si trasforma davvero l’azienda con il digitale se il modello di business rimane tradizionale e questo non riguarda solo quelle aziende che gravitano su business tecnologici o digitale, ma è una cosa che riguarda qualunque tipo di settore.
Lo dico perché passando dal mondo dell’e-commerce a quello del farmaceutico, che per certi versi è un mondo conservativo perché è un settore in cui le marginalità sono alte, la pressione concorrenziale non è così forte come in altri mercati ad alta concorrenza come il famoso Hi-Tech di cui sopra.
Per usare una metafora, è come se nell’era pre-digitale, parliamo a livello di modelli di Business, avessimo giocato all’interno di un contesto euclideo, fatto da tre dimensioni, il campo da gioco è costituito da altezza, larghezza e lunghezza, dimensioni su cui tutti sappiamo muoverci. Il digitale non è una semplice competenza o un insieme di capacità tipo usare il pacchetto office: è una quarta dimensione che si aggiunge alle 3 originarie, siamo entrati in uno spazio, in una geometria non euclideo.
La cultura digitale è la capacità di muoversi all’interno di un contesto non euclideo, in cui questa quarta dimensione che è il digitale è assolutamente trasversale, pervasiva. cos’è che hai
Come si concilia questa nozione di “digitale come quarta dimensione” con le culture aziendali meno digitali, senza creare un senso di rifiuto?
Evitare il rifiuto di fronte ad un paradigma percepito come troppo distante è cruciale. Ci sono due aspetti.
Il primo è un po’ la conseguenza di quello dicevo; ci deve essere una scelta strategica dall’alto, perché prendere coscienza che il modello di business o il modello di go to market sono cambiati significa operare sulla visione e sulla strategia di un’azienda.
Dall’altro c’è una prospettiva più dal basso, più legata agli aspetti minuti anche nella quotidianità che è lavorare sulle resistenze delle persone, perché alla fine le competenze sono fatte di comportamenti e quindi lavorare sui comportamenti delle persone vuol dire fare un lavoro quotidiano fatto di piccoli passi, per parafrasare il pensiero di Schuman e Monnet. Lavorare sul cambiamento, sulla trasformazione dei comportamenti delle persone vuole dire lavorarci quotidianamente ed affrontare le resistenze che le persone possono avere a cambiare il modo di lavorare, soprattutto quando esso ha una forte spinta inerziale. Lavorare su questa spinta inerziale vuol dire agire un po’ come satelliti, che correggono la propria traiettoria orbitale con minuscole correzioni periodiche.
Questo rimanda all’idea del Nudge, della Spinta Gentile, quella filosofia del cambiamento comportamentale fatto per accompagnamento tramite piccoli gesti, piccole modifiche che portano nella direzione desiderata.
Se al contrario si introduce una cultura “ostile” alla cultura esistente e si spinge per cambiare la cultura che c’è, si crea un moto di resistenza; chiaramente il cambio culturale invece avviene nel tempo tramite piccole iniziative, piccole abitudini che permettono l’avvicinamento di magari due comunità diverse (come nel caso di una fusione aziendale) che poi con il tempo si uniscono e diventano indistinguibili.
La competenza digitale stessa non è fatta di grandi contenuti, ma di piccole modalità anche implicite, ad esempio come gestire l’empatia: sono 30 anni che parliamo di Intelligenza emotiva ed empatia, con la differenza che oggi le dobbiamo applicare in maniera virtuale. Per farlo, abbiamo bisogno di cicli molto brevi di apprendimento sul campo, non studiando manuali. Tutto questo è molto vicino al concetto di Nudging.
Facendo un esempio aziendale, noi abbiamo introdotto Kaizala, uno strumento che fa parte della Suite microsoft che è una sorta di WhatsApp e qui il rischio di buco nell’acqua era grandissimo, se fosse stata vissuta come un’inutile imposizione o replicazione di sistemi già in uso, come proprio WhatsApp. Quello che abbiamo fatto è, se vogliamo, mutuare il business model del digitale in un contesto organizzativo comportamentale: abbiamo cercato di portare traffico sull’applicazione. Esattamente come per promuovere un sito internet (un e-commerce) bisogna mettere in atto una serie di azioni che sono piccole, ma magari di grande impatto per portare traffico, così noi abbiamo fatto
una piccola serie di azioni a martello e abbiamo portato traffico. Questo ha permesso agli utenti di entrare su Kaizala, farne esperienza ed ora è una chat usata tantissimo, ci giochiamo ci facciamo contest, ci mettiamo i messaggi e le persone hanno superato anche quella resistenza iniziale che porta a pensare “ho già WhatsApp come chat e la chat è una cosa personale, sta fra me ed i colleghi e non voglio che l’azienda ci metta le mani.”
In questo caso è evidente che il limite possibile all’uso di Kaizala non è tanto di competenza digitale – la chat è intuitiva e semplice da usare – quanto più di cultura, cioè di abitudine ad usare uno strumento digitale anziché uno più analogico.
Che legame c’è fra cultura digitale e Smart Working?
Tutte le aziende che non hanno una cultura digitale sviluppata tendono a soffrire molto lo Smart Working. La diatriba “Smart Working sì o no” si impernia sul problema della cultura digitale: dove essa c’è è più facile accettare che anche in remoto si riesce a lavorare con efficienza. Dove la cultura digitale proprio non c’è allora si sente la necessità di tornare a vedere i propri faldoni e documenti e dipendenti.
Lo smart working assume un aspetto fondamentale della digitalità e quindi anche delle competenze digitali che è la virtualità delle relazioni la distanza e quindi è incompatibile con modelli di gestione organizzativa basati sul controllo. Di per sé è sbagliato dire che la cultura digitale non è si presti ad essere interpretata come cultura di controllo, anzi: è molto compatibile con contesti di culture di performance, in cui però il risultato è frutto della collaborazione. Se collaboriamo dobbiamo aver chiaro qual è l’obiettivo comune, condividere quali sono le risorse a, disposizione qual è il tempo di cui si ha bisogno ed il controllo diventa monitoraggio, supporto, ma alla fine a parlare è il risultato.
Nel contesto italiano, fatto di piccole-medie imprese, spesso padronali, permane ancora l’idea del controllo visivo o del quantitativo di ore passate sedute alla scrivania o delle timbrature. Con il digitale questi sono temi vecchi soprattutto per aziende terziarie o di servizi: in contesti produttivi sicuramente è diverso.
Quanto la Cultura Digitale dipende dai sistemi IT?
Digitale ed IT sono due cose diverse. La cultura Digitale è una questione di mentalità, anzi: lo sdoganamento della rivoluzione digitale dell’ultimo paio d’anni mostra proprio che questa non è appannaggio della funzione IT, che fornisce un presupposto ma che, potremmo dire, dire, è una commodity l’hardware o meglio è uno strumento. La vera rivoluzione non comincia e non finisce nell’hardware o software, ma deve nascere nella strategia aziendale che parte dal management e dalla leadership.
Oggi si fa fatica a pensare ad un business che non può trarre giovamento dall’utilizzo dei big data; l’utilizzo dei big data è una competenza digitale fondamentale.
Allo stesso modo, si fa fatica a pensare che ci sia una organizzazione aziendale che non debba pensare alla sicurezza in termini di cyber security, anzi gli attacchi forse maggiori addirittura negli ultimi anni hanno colpito settori low tech, manifatturieri o alimentari e così via.
Allo stesso modo, ogni azienda magari tranne le micro-imprese, hanno dovuto fare i conti con la gestione digitale delle relazioni al cento per cento, dovendo fare i conti con gli aspetti emozionali dell’uso dei comuni mezzi digitali durante il lockdown.
Qual è il ruolo di HR nella creazione di cultura digitale?
Io sono uno dei grandi sostenitori del fatto che HR debba assumere sempre di più un ruolo molto centrale all’interno di tutti quelli che sono i processi di trasformazione. Per quanto non sia un fatto esclusivamente IT, il Digitale ne è abilitato.
Oggi stiamo assistendo però ad un importante rebranding dell’HR perché come funzione ha perso, per lo meno in Italia, (ma non solo) ha perso molto terreno negli ultimi diciamo dieci anni .
Spesso capita che la trasformazione digitale sia considerata o un tema di infrastrutture e quindi IT o un tema di costo e quindi finance, o un tema di strategia e quindi di marketing/business. Questi elementi ci sono e sono fondamentali, ma manca quella visione d’insieme, olistica, che è il presupposto di qualunque trasformazione, a maggior ragione di una così importante. La trasformazione digitale include elementi tecnologici, organizzativi, comportamentali e di business, per cui è necessario che HR debba rinforzare la propria competenza proprio di business.
Una funzione che non comprende che cosa fa il proprio cliente interno, la propria organizzazione, non può sperare di avere un impatto strategico e dall’altra parte HR è la funzione più trasversale che ci sia in azienda; di conseguenza, è quella che può favorire una visione sistemica, connettere e favorire una visione trasformativa coerente che non che non proceda per silos o che si perda dei pezzi: cioè quella funzione che se comincia dal business e capisce le esigenze e ascolta poi può cucire insieme le cose e aiutare a portare avanti un progetto coerente.
Poi naturalmente HR è la funzione che più lavora con le persone e sui comportamenti, perché può disegnare modelli, strutture organizzative, processi, ruoli e responsabilità che sono poi abitati dalle persone e che possono rendere efficace o meno la trasformazione digitale.
C’è un famoso dato di McKinsey, riportato in Beyond Performance 2.0, che identifica come fattore differenziante fra gruppi di aziende in cui la trasformazione digitale ha avuto successo (70-80%) e quelle in cui invece è fallita (30% di successo): questo fattore è quanto tempo, attenzione, budget e cura danno al people side della trasformazione e non solo al technology said o al business side. Quindi, sicuramente la trasformazione digitale è fatta di economics e di infrastuttura IT, ma se non mettiamo le persone al centro della trasformazione, possiamo creare il progetto, con la tecnologia migliore, con l’efficienza economica migliore, ma si fallsce se non abbiamo l’utente (anzi, come dicono a volte gli informatici, l’utonto, cioè l’utente medio, non lo smanettone/early adopter) a bordo.
Nella trasformazione verso l’esterno si spendono spesso grandi budget per creare delle digital experience fantastiche, perché manca la leva della moral suasion 0rganizzativa. Internamente, invece, ce l’abbiamo: possiamo andare a parlare con gli utenti interni, cercare di capire cosa vogliono e disegnare per loro e abituarli. HR è l’unico collettore di questo perché è l’unico che, fra i suoi tanti cappelli, ha la cultura e i comportamenti come una delle sue aree di interesse. Ed è in questo che si esprime la gran parte della capacità strategica di HR.
Dal mondo del Digitale però HR deve apprendere nozioni di user experience e di design.
Tornando all’esempio di Kaizala, questo è evidente: c’è stato un investimento, l’IT ha messo le infrastrutture e poi HR ha lavorato a costruire un’employee experience intorno a questo sistema. Non l’ha fatto l’IT e non l’ha fatto il Finance, pur con tutto il grande rispetto per l’importanza del loro ruolo. Non è una questione di squadriglie, IT contro HR, ma bisogna creare nelle aziende dei centri di trasformazione trasversali, ibridi. Le persone ed i team in grado di guidare davvero il cambiamento hanno competenze trasversali, in grado di entrare sia in aspetti tecnici, sia organizzativi, sia economici, sia comportamentali.
Proprio questi quattro aspetti, se vogliamo le quattro dimensioni dello spazio non euclideo di cui si parlava prima, possiamo identificarlo in HR oppure in altre funzioni, ma l’evidenza è che per guidare il cambiamento servano professionisti che parlano la lingua del business, della tecnologia, del finance e dei comportamenti e della cultura organizzativa e questo spesso significa sviluppare una capability che esce dagli
schemi attuali e che si occupi proprio di trasformazione.