Questo articolo è il secondo della serie dedicata alla rivoluzione digitale ed alle competenze necessarie ad affrontarla. Per rileggere il primo, segui questo link. Per andare al terzo, segui questo link.
Rispetto ad altre storiche rivoluzioni tecnologiche, niente di – apparentemente – più distante è la rivoluzione digitale, questa pervasiva presenza dei sistemi informatici nel lavoro: fredda, trascendente (dall’estero verso l’Italia – dal vertice aziendale alla periferia), automatica (lo smartphone ci dice da solo dove abbiamo dimenticato l’auto e il traffico verso il lavoro), veloce, impietosa (dei nostri limiti).
Sicuramente uno dei più solenni errori commessi nelle aziende è il modo in cui è affrontato il cambiamento: l’enfasi del training – almeno inizialmente – è totalmente tecnico, trascurando il fatto che le persone – e specialmente gli adulti – imparano ad usare gli strumenti informatici facendo e partendo dal risultato e dal beneficio, non dalla teoria. Probabilmente milioni di euro sono stati buttati facendo e rifacendo progetti di change.
L’altro errore è dato dalle persone stesse con il loro sistematico rifiuto del cambiamento. È umano guardare con preoccupazione alla novità, pensare con disagio a come questa cambierà le nostre abitudini: i nostri schemi mentali, i nostri ancoraggi, le nostre certezze messe in crisi!
Ma si tratta di una reazione emotiva gestibile, specialmente se si affronta la novità o il progresso tecnologico come una opportunità di miglioramento, come “materia plasmabile” nelle mani di chi impara ad usarla: tutto questo prevede un cambiamento di atteggiamento da “passivo” ad “attivo”: in altre parole, dovremmo pensare che il “nuovo è mio” e il software, il device, il workflow che mi trovo di fronte mi può dare benefici inesplorati e migliorare la mia vita, come è sempre stato (ma questo … lo si scopre sempre a posteriori).
Un atteggiamento che significa partecipare e persino migliorare il cambiamento: pensiamo al viticoltore Piemontese che nel 1700 impara una nuova tecnica colturale: non “màrita” più la Vite al Gelso, ma la lega ad una spalliera, dando inizio ad una rivoluzione che fa dell’Italia oggi il primo produttore di vino al mondo. Probabilmente quel viticoltore era analfabeta, ma era sicuramente una persona coltissima, per l’enorme accumulo di esperienza tramandato da generazione in generazione. Proprio per questo probabilmente non ha avuto timore di cambiare una abitudine: d’altra parte sono le persone più insicure della propria expertise che vedono il cambiamento come una terribile minaccia.
L’antidoto – quindi – alla sofferenza del continuo cambiamento è lo sviluppo di una cultura non fine a sé stessa, ma fatta di comportamenti concreti proiettati verso l’adozione attiva della novità.
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